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Sull'uso dei preservativi in Africa

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Messaggio Da spe salvi Ven 20 Mar 2009, 14:53



19 Marzo 2009
PARLA IL MEDICO FILIPPO CIANTIA

Aids: «Il successo dell’Uganda
dà ragione a Benedetto XVI»


La posizione del Papa sull’Aids? Realista, ragionevole e scientificamente fondata. Parola di un medico che da anni si misura col problema in uno dei Paesi africani dove il virus ha colpito più duramente, l’Uganda, e dove le strategie di contrasto hanno portato a risultati molto significativi, fino a farne un modello. Filippo Ciantia ci vive dal 1980 con la moglie e otto figli. È il rappresentante regionale dell’ong italiana Avsi per la Regione dei Grandi laghi ed è autore di numerosi interventi su riviste scientifiche. In uno di questi, pubblicato su Lancet, ha messo in evidenza l’efficacia della dottrina cattolica nell’affronto dell’Aids.

In che senso Benedetto XVI esprime una posizione realista?

La strategia vincente di fronte al virus non può essere meramente sanitaria e farmacologica. Si vince tenendo conto di tutti i fattori che costituiscono la persona. I dati dimostrano che l’Aids è diminuito solo nei Paesi in cui si è lavorato per modificare i comportamenti sessuali e gli stili di vita delle persone, cosa che a sua volta deriva da un lavoro di informazione e educazione che coinvolge le famiglie, le donne, le scuole. È accaduto così in Kenya, Etiopia, Malawi, Zambia, Zimbabwe e soprattutto qui in Uganda. Ma per ottenere risultati bisogna avere il coraggio di scelte forti, come hanno fatto da queste parti...

Quali scelte?

Il cuore del problema sta nella modificazione dei comportamenti, per esempio i rapporti sessuali a rischio contemporanei con più partner, che in Africa sono molto diffusi. C’è una notevole ritrosia a intervenire su questo terreno perché si dice che in nome della libertà non è lecito intromettersi nelle scelte della gente. Ma questa è una posizione ipocrita. Come la mettiamo allora con le campagne contro il fumo, l’alcol, la droga che si vanno moltiplicando? Anche questa è invasione di campo? Se un comportamento mette a rischio la salute, astenersi dall’intervenire per cercare di modificarlo significa in realtà danneggiare le persone che lo mettono in atto e l’intera società.

Quindi la Chiesa non fa invasione di campo parlando di astinenza e fedeltà al partner?

La Chiesa fa il suo mestiere e, facendolo, contribuisce al bene di tutti. Non c’è un posto al mondo dove l’Aids sia diminuito senza un cambiamento radicale dei comportamenti sessuali. Ma per arrivare a questo si deve lavorare a livello educativo, non ci si può certo accontentare di distribuire preservativi, confidando nel loro effetto taumaturgico e deresponsabilizzando la gente. Lo ha capito bene il governo ugandese che ha laicamente lanciato con successo la strategia dell’ABC.

In cosa consiste l’ABC?

Alle persone viene consigliata l’astensione dai rapporti (Abstinence), la fedeltà al partner (Being faithful) e – in casi molto particolari e solo per certe, limitate categorie di persone – l’uso corretto del profilattico (Condom use). Risultato? La prevalenza dell’Hiv è passata dal 15% del 1992 al 5% del 2004. E sa qual è stato il costo dei programmi avviati per favorire la modifica degli stili di vita? 23 centesimi di dollaro a testa. Ha ragione il Papa: siamo di fronte a una tragedia che non può essere vinta solo con i soldi. Serve una strategia multilaterale che metta al centro il bene della persona.

Cosa vuol dire concretamente?

Promozione della condizione femminile, sostegno a chi è colpito dal virus con i farmaci (la gratuità è un elemento fondamentale e rischia di venire colpito dagli effetti della crisi economica), lotta allo stigma e alla discriminazione nei confronti dei malati, campagne di educazione preventiva nelle scuole primarie raggiungendo i bambini prima che diventino sessualmente attivi. E per raggiungere questi obiettivi, non si può prescindere dal fattore comunitario.

Perché è fondamentale questo elemento?

In una società come quella africana è necessario coinvolgere i leader religiosi e le comunità locali. In Uganda molte organizzazioni si sono prese cura degli orfani (che sono due milioni e mezzo), hanno aiutato le famiglie colpite, si sono prodigate nell’attività educativa e soprattutto hanno fatto compagnia ai malati. Come fanno quelli del Meeting Point, il partner locale di Avsi, che da anni aiutano migliaia di donne a Kampala e in altre città.

Cosa fanno?

Promuovono corsi di igiene e salute, prestiti per piccole attività lavorative, distribuiscono cibo. Molte donne sono state aiutate a capire che la loro esistenza è più grande della malattia, hanno cominciato il trattamento antiretrovirale che prima rifiutavano perché si sentivano finite, si aiutano a vicenda a prendere le medicine. Se una di loro muore, i figli vengono presi in casa da un’altra. Si sentono amate da qualcuno che le considera importanti. È un piccolo miracolo quotidiano, un’esperienza d’amore più contagiosa del virus. Filippo Ciantia

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Da Avvenire del 19/03/2009
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Messaggio Da spe salvi Mar 24 Mar 2009, 15:03

Aids, l'Onu si arrende alla Chiesa
Data: Venerdì, 15 aprile @ W. Europe Daylight Time
Argomento: Contraccezione

di Riccardo Cascioli

Il fallimento della “politica del preservativo” spinge le agenzie internazionali a guardare ai successi delle organizzazioni cattoliche, basati sulla presenza e sull’educazione. Il caso dell’Uganda.

[Da «il Timone» n. 35 - anno VI - Luglio/Agosto 2004]

«La Chiesa cattolica e la Caritas sono risorse chiave a livello dei singoli Paesi. Quindi per favore contattate e cercate una collaborazione attiva con loro attraverso le Conferenze episcopali cattoliche e gli uffici nazionali della Caritas, e facilitate il loro inserimento negli appropriati progetti di cooperazione nel Paese». Questo ordine è stato impartito ai coordinaton nazionali dell’UNAIDS (l’agenzia dell’Onu che si occupa di lotta all’Aids) da parte del Direttore del Country & Regional Support Department, Michel Sidibe. La data del memorandum è il 31 marzo 2004 e rappresenta una svolta nell’atteggiamento dell’agenzia dell’Onu.

Finora, infatti, da UNAIDS e da altre agenzie internazionali erano venute solo velenose polemiche contro la Chiesa cattolica, accusata essenzialmente di ostacolare l’uso dei preservativi come forma di prevenzione dell’Aids. Addirittura quando nell’autunno scorso ii cardinale Alfonso Lopez Trujillo, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, affermò alla BBC che il preservativo è permeabile al virus Hiv chiedendo che ciò venisse scritto su tutte le confezioni di profilattici (come si usa per le sigarette), fu oggetto di un linciaggio mediatico senza precedenti.

UNAIDS ora invece riconosce in questa lettera che «la Chiesa cattolica è responsabile del 26% di tutti i servizi sanitari nel mondo» e che in 38 Paesi in via di Sviluppo (che vengono tutti elencati nel memorandum) ha in corso importanti programmi per la prevenzione e cura dell’Aids. Non si fa ancora marcia indietro sul preservativo, ma indirettamente si riconosce che questa forma di prevenzione — l’unica sostenuta a livello di agenzie internazionali — non dà i risultati previsti. In realtà, alcuni ricercatori si spingono più in là. Edward Green, scienziato di forrnazione liberale dell’Harvard’s Center for Population and Development Studies, nel 2002 affermava in uno studio che «dopo 20 anni di pandemia non c’è al cuna evidenza che piü preservativi portino a meno Aids». E nel 2003 lo stesso Green ha pubblicato un libro dal titolo significativo - Rethinking AIDS Prevention (Ripensare la prevenzione dell’Aids), Greenwood Press — in cui, partendo dall’esperienza sul campo e dai dati raccolti, sostiene che l’unico approccio che risulta efficace nella prevenzione deIl’Aids è quello basato sull’educazione all’astinenza e alla fedeltà coniugale. Insomma, ciò che la Chiesa cattolica ha sempre fatto e che anche l’arnministrazione Bush sta ora cercando di fare sostenendo le organizzazioni religiose che operano nei Paesi in via di Sviluppo. Per inciso, vale la pena ricordare che ii 24 maggio scorso proprio a Edward Green è stato assegnato l’importante Premio Philly Bongole Lutaaya per il suo lavoro sull’Aids in Africa.

Il caso che meglio spiega queste posizioni é quello dell’Uganda, l’unico Paese dove ci sia stata una reale diminuzione nel tasso di infezioni da HIV: secondo i dati offerti da uno studio di USAID (l’agenzia per lo sviluppo internazionale che fa capo al governo americano) c’è stata una riduzione del 75% nel gruppo di età tra i 15 e i 19 anni, del 60% tra i 20 e i 24 e del 54% nel suo complesso. E questo perché è stato ridotto del 65% ii sesso con partner casuali, grazie all’azione del governo che ha puntato soprattutto sull’educazione all’astinenza e alla fedeltà coniugale, nconoscendo al contempo il lavoro di chi già sul campo lavorava in questa direzione. Al contrario, l’arcivescovo di Nairobi, Raphael Ndingi Nzeki, ha denunciato che negli altri Paesi «l’Aids è cresciuto cosìI rapidamente a causa della disponibilità dei preservativi». Non sembn un’affermazione provocatoria: il 29 gennaio 2000 la rivista scientifica The Lancet, a proposito dell’incentivo alI’uso dei profilattici, avvertiva del pericolo di "una falsa percezione di protezione" che "induce ad aumentare i comportamenti a rischio".

E lecito a questo punto porsi una domanda: come è accaduto che la Chiesa avesse ragione mentre a livello internazionale c’e stato un abbaglio collettivo? Sostanzialmente perché mentre le agenzie Onu si sono sempre mosse sulla base di schemi ideologici, la Chiesa è presenza, la Chiesa vive il metodo della condivisione. Giuliano Rizzardini, primario di malattie infettive all’ospedale di Busto Arsizio ma con una lunga esperienza in Africa nella lotta all’Aids e consulente della Santa Sede, spiega che «la presenza permette di cogliere i reali bisogni, di creare un contesto educativo che solo permette a prevenzione e terapie di essere efficaci, di inventare modalità di intervento, di essere credibili e autorevoli nel suggerire soluzioni». Non sono parole, é un fatto, corroborato da alcuni dati: le organizzazioni cattoliche che in tutto il mondo lavorano a vario titolo per la salute sonc 110.954 e gestiscono 6.038 ospedali, 17.189 dispensari, 799 lebbrosari, 13.238 case di cura per anziani e cronici, 64.979 centri di riabilitazione, counselling, assistenza pediatnca. E nell’Uganda diventata esempio per il resto del mondo in fatto di lotta all’Aids la sanità gestita dalla Chiesa cattolica — secondo le cifre fornite dal Journal of Medicine and the Person — conta 27 ospedali (un quarto del totale) 220 unità sanitarie di primo livello e le scuole infermieri, mantenendo “un ruolo decisivo neIl’erogazione sia dei servizi di base che di alta specializzazione traman dando un prezioso ethos professionale una cultura di servizio”.

Una seconda questione importante è nella specificità di questa presenza della Chiesa: essa, infatti, nell’offrire un servizio, punta all’eclucazione della persona. I governi occidentali e le agenzie internazionali pensano che basti rendere disponibili le medicine per avere terapie di successo, e invece questo non basta. Ancora l’esperienza del dottor Rizzardini: «Le terapie hanno successo soltanto se sono inserite in un contesto educativo». Vale a dire che l’astinenza e la fedeltà coniugale, ad esempio, non sono imposizioni di morale o di igiene, ma — come nel caso dell’Uganda — sono inserite nella prospettiva di un’educazione aIl’affettività, alla responsabilità personale e al rispetto verso gli altri.
Non dobbiamo pensare che le agenzie Onu abbiano già imparato la lezione, ma la svolta dell’UNAIDS indica almeno che un primo passo nella giusta direzione è stato fatto.

Ricorda

“La vera educazione deve promuovere la formazlone della persona umana sia in vista del suo fine ultimo sia per il bene delle varie socletà, di cuii l’uomo è membro ed in cui, divenuto adulto, avrà misslonl da svolgere”. (Gravissimum Educatlonis, Dichiarazione conciliare sulI’educazione cristiana, 28 ottobre 1965, n. 1°).

Bibliografia

Angelo Scola, La Buona Salute e i luoghi della cura, Cantagalli 2002.
Gina Bramucci, Avsi e HIV/AIDS, pamphlet ordinabile solo via Internet scrlvendo a milano@avsi.org

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Messaggio Da spe salvi Mar 24 Mar 2009, 15:04

Aids: il preservativo non preserva
Data: Mercoledì, 21 giugno @ W. Europe Daylight Time
Argomento: Contraccezione

di J.P.M. Lelkens

Doentazione di una truffa

[Da "Studi cattolici" n. 405, novembre 1994]

Nello sconcerto causato dall’imperversare dell’epidemia di Aids i corifei della «libertà sessuale» si aggrappano al preservativo come ultima ancora di salvezza per salvare la loro ideologia dal naufragio. «I preservativi vi augurano buone vacanze», si leggeva quest’estate su parecchi cartelloni pubblicitari giganteggianti negli angoli d’Europa. Allo stesso tempo, con un’insistenza crescente, si ritorce la colpa dell’epidemia su chi, come il Magistero cattolico, non è disposto a raccomandare l’uso di questo mezzo profilattico, la cui diffusione è un’ulteriore spinta verso la degradazione della sessualità. Ma questo articolo del prof. Joannes P.M. Lelkens, emerito di anestesiologia all’Università di Maastricht e attualmente docente di fisiologia all’Istituto «Medo» di Kerkrade (Paesi Bassi) per la famiglia e l’educazione e membro del direttivo della fondazione «Medische Ethiek», mostra il volto sconosciuto di una campagna mondiale che, dietro gli enormi interessi economici in gioco, nasconde gravi limiti scientifici, in conseguenza dei quali il «magico» preservativo si rivelerebbe come la più grande bufala del secolo.
Ci scusiamo con i lettori per la crudezza di certi dettagli, ma, per smontare un mito, a volte non c’è altro mezzo che il nudo realismo.


Il governo olandese promuove fin dal 1987 campagne pubblicitarie intese a raccomandare ai giovani il «sesso sicuro», cioè l’uso del preservativo. A prescindere dalla valutazione morale che merita un govemo che si comporta così, è legittimo il sospetto che questo nmedio sia piuttosto un veicolo del contagio che un profilattico.
Come «sesso sicuro», oggigiomo, s’intendono gli atti sessuali compiuti in modo da impedire che diano luogo alla trasmissione dello Hiv (Human Immunodeficiency Virus), un virus che provoca l’Aids. L’Aids a sua volta non è propriamente una malattia, ma, come dice il nome (Acquired Immune Deficiency Syndrome) una sindrome. La vera malatti è l’infezione da Hiv, di cui l’Aids costituisce lo stadio finale. Chi ne è affetto ne resta per tutta la vita portatore; e risulta sempre più confermato che nella grande maggioranza dei casi questa infezione è mortale (la ricerca attualmente colloca la percentuale di mortalità accertata attomo all'80%). Pertanto i sieropositivi, cioè coloro nel cui sangue un apposito test rivela l’esistenza dello Hiv, anche se non mostrano ancora sintomi della malattia, non si possono dire «portatori sani»: sono «morituri», e rappresentano per giunta un pericolo mortale per i loro partner sessuali.
Adesso che in Olanda, oltre alla Commissione Nazionale Aids, sempre più organizzazioni, alcune addirittura cattoliche, si mettono a far propaganda del preservativo come toccasana per evitare l’infezione da Hiv, è urgente porsi la questione: «Il preservativo perde o non perde? E se perde, che cos’è che lascia o non lascia passare?». Sia chiaro che è una questione di vitale importanza quando ci sono di mezzo malattie veneree come un’infezione da Hiv, contro la quale in dodici anni di ricerca non è stata trovata alcuna terapia, e che, lungi dall’essere un pericolo esciusivo per gli omosessuali, ormai si diffonde rapidamente anche tra gli eterosessuali e fa sempre più vittime tra donne e bambini.
Fino al 1960 il preservativo veniva usato come il più importante anticoncezionale, accanto al «coitus interruptus», ma nel 1960 fu soppiantato dalla «pillola», grazie a una propaganda massiccia che strombazzò a dritta e a manca l’inaffidabilità del preservativo. Una propaganda tutt’altro che infondata, dal momento che la letteratura denuncia una probabilità di insuccesso dal 9% al 14%. Il che è come dire che su 100 coppie che per un anno come anticoncezionale usano esciusivamente il preservativo, circa 12 donne rimangono incinte. A proposito di questi «insuccessi», però, bisogna tener conto del fatto che anche senza preservativo la probabilità di contrarre gravidanza non è del 100%, ma dell’89%. Quindi 89 gravidanze su 100 coppie in un anno. Il rapporto 0,12/0,89 (=0,13) indica pertanto una probabilità di insuccesso del 13%, o, in altre parole, un’efficacia dell’87% nella prevenzione della gravidanza per mezzo di preservativi (1). E il 13% è una percentuale di insuccesso molto alta, se si tiene conto del fatto che una donna è feconda soltanto da 3 a 6 giorni a! mese (da 36 a 72 giorni all’anno), il che è come dire: dal 10% al 20% del tempo. Per quanto sia difficile immaginarselo, il preservativo è permeabile agli spermatozoi.

La «cortina di gomma»

Eppure — incredibile ma vero! — negli anni Ottanta, infierendo già l’epidemia di Aids, il preservativo tapino e vilipeso si vide proclamato rimedio per antonomasia contro la diffusione del virus; grazie a lui il sesso da allora in poi poteva dirsi «safe». Grande fu lo stupore e la preoccupazione degli «insiders», perché sapevano bene che il virus dell’Aids e più piccolo degli spermatozoi, e pertanto capace di superare ancor più facilmente la «cortina di gomma». Ma grande fu pure il sollievo di chi aveva temuto che l’Aids avrebbe messo il punto finale alla conquistata libertà sessuale e che adesso si sentiva dire, addirittura da fonti governative, che i preservativi sono sicuri. Giacché è questo che ci insegnano oggi in Olanda manifesti e spot televisivi: «Faccio l’amore sicuro o non lo faccio per niente», strategicamente piazzati dalla Fondazione «Affezioni a trasmissione sessuale» (Soa, «Sexueel Overdraagbare Aandoeningen») sovvenzionata dallo Stato. Il messaggio è chiaro: si fa vedere un uorno, impegnato in un atto sessuale, con in mano un pacchetto di preservativi che, stando al testo, dovrebbero offrire una difesa sicura contro la trasmissione dello Hiv.
A parte l’offesa che questa pubblicità comporta per alcuni settori della popolazione, viene da domandarsi se con l’illusione di diffondere un consiglio salutare non si stiano sperperando soldi dello Stato in una propaganda dagli effetti micidiali.
Nel frattempo in altri Paesi non si dà tanto per scontata la sicurezza dei preservativi. La Federal Drugs Administration (Fda), per esempio, l'ente che negli Stati Uniti controlla i medicinali, nota che il preservativo di gomma può fare qualcosa per prevenire le malattie veneree, ma non elimina il rischio (2).
Il contatto diretto con sperma infetto è la causa principale della trasmissione per via sessuale del virus dell’Aids. In una eiaculazione vengono emessi circa 3,5 milliuitri di sperma, e il liquido seminale di un uomo sieropositivo contiene più o meno 100.000 particelle di virus per microlitro (0,001 millilitri). Una caratteristica dei virus è proprio la loro dimensione incredibilmente ridotta. Al microscopio elettronico si è potuto costatare che ii virus Hiv è una pallina del diametro di appena 100 nm (nanometri), cioè 0,1 micron (1 micron = 0,001 mm e 1 nanometro è un miliardesimo di metro). Ciò significa che il diametro della parte più grossa dello spermatozoo, la testa, che è di 3 micron, è trenta volte più grande dello Hiv (3). Il che è come dire che, se lo spermatozoo ce la fa a oltrepassare la parete del preservativo, il transito è trenta volte più comodo per il virus. «Sì, però... i preservativi, non vengono testati?». Certo; e in Olanda si continua a pensare — ci credono pure il govemo e la Commissione Nazionale Aids — che si possa star sicuri di come vengono controllati prima di essere messi in vendita. Che siano impermeabili — si dice — basterebbe a dimostrarlo il fatto che non lasciano passare nemmeno una molecola d’acqua: «Figuriamoci se passa uno Hiv!».
Ma siamo proprio tanto sicuri che i preservativi non presentino pori abbastanza larghi (più di un 0,1 micron) da lasciar passare lo Hiv, e allo stesso tempo abbastanza piccoli da sfuggire al controllo dei test? Per rispondere a questa domanda la bibliografia medica ci aiuta poco. Dobbiamo rivolgerci ai manuali e alle nviste dell’industria della gomma.
La permeabilità dei preservativi viene valutata con il cosiddetto «test di permeabilità», noto con la sigla Astm D 3492-89. Questo test è basato sullo standard originale Astm, consistente nella percezione visiva di perdite (gocce d’acqua) su un preservativo appeso e riempito con 300 ml di acqua; altro elemento del test è il metodo, usato dalla Fda, di far rototare il preservativo su carta, in modo da scoprire più facilmente gocce d’acqua fuoriuscite. Se più dello 0,4% (4 per mille) della partita di preservativi esaminata mostra delle perdite, si scarta tutta la partita. È noto l’esito di un esperimento che fu fatto per scoprire se fosse possibile che, nonostante questa prova, piccole perdite passassero inosservate. Furono aperti, con l’aiuto di un microscopio elettronico, dei forellini di 1 micron in preservativi nuovi, di marche diverse, che avevano già superato il test (4). Di questi preservativi, con forellini dieci voile più grandi dello Hiv, il 90% (!) superò un secondo test, cioè non mostrò alcuna perdita di acqua.
In un altro esperimento vennero introdotte, in preservativi che avevano superato il test di permeabilità, microsfere fluorescenti di polistirene del diametro di 0,1 micron, cioè dello stesso diametro dello Hiv (5). Una volta riempiti, questi preservativi vennero esposti a variazioni fisiologiche di pressione, analoghe a quelle che si verificano durante un coito; dopodiché vennero contate le microsfere fuoriuscite. Risultò che un terzo di questi preservativi, pur testati e approvati, mostrava perdite di liquido di un volume tra gli 0,4 e gli 1,6 nanolitri. Si noti che la quantità di liquido minima percepibile a occhio nudo è di 1 microlitro (1 milionesimo di litro, pari a 1000 nanolitri). Il che è come dire che, se questo microlitro di liquido fosse di sperma di un uomo infetto da Hiv, ben centomila particelle di virus sfuggirebbero alla nostra osservazione. E questa è proprio la quantità media di particelle di virus che presenta per microlitro lo sperma infetto. Supponiamo che un coito duri in media 2 minuti, con un preservativo che perde 1 nanolitro per secondo. Il calcolo (1/1000 x 100.000 x 120) ci dà un prodotto pari a 12.000 virus che attaccano il partner, quando uno solo basta a infettarlo. Se, per ipotesi, un coito durasse 30 minuti arriveremmo a (15 x 12.000 =) 180.000 particelle.

Il test elettrico

A quanto pare dunque il test di permeabilità in uso per i preservativi non è abbastanza sensibile da rintracciare quei pori minimi che bastano a far passare i virus. L’apertura minima percepibile con il test di permeabilità è tra i 10 e i 12 micron, quindi cento volte piü grande del virus Hiv. Oltre al test di permeabilità ne esiste un altro, anch’esso di uso frequente: è un test elettrico, basato sulle capacità isolanti della gomma. Un preservativo viene infilato su una forma di metallo. Se gli viene avvicinato un elettrodo, dovrebbe passare corrente elettrica per quei punti in cui il preservativo presenta dei fori. Ma soltanto se ci sono aperture di una certa grandezza la resistenza non impedisce che si formi questa corrente; il che è escluso nel caso dei micropori. Anche questo test non è abbastanza sensibile e non serve quindi a rintracciare fori piccolissimi.
Costatato che i test in uso non riescono a scoprire aperture inferiori a 10 micron di larghezza, è importante studiare la natura di questi fori che si possono osservare nei preservativi e vedere se siano difetti inerenti al materiale usato, il latice. I preservativi di latice dell’albero della gomma hanno infatti da lungo tempo soppiantato quelli, piü cari, di intestino animale. È possibile produrli anche in gomma sintetica; ma non accade di frequente, perché la minore elasticità e altre caratteristiche li rendono meno attraenti per il consumatore.
La fabbricazione di preservativi di latice di gomma è abbastanza semplice. Si immerge una forma cilindrica di vetro in un serbatoio di latice liquido, che è una sospensione di particelle di gomma con un diametro variabile tra gli 0,1 e i 5 micron. Lo spessore dello strato di gomma che aderisce alla forma è determinato dalle sostanze solide contenute nella soluzione e dal tempo di immersione (generalmente si compiono due immersioni successive). Poi la forma viene tirata fuori e asciugata e vulcanizzata. La vulcanizzazione è un procedimento chimico durante il quale il latice di gomma, con l’aggiunta di zolfo e additivi minerali in soluzione, viene sottoposto a una temperatura di circa 140 °C per quattro o cinque ore. Da termoplastica la gomma diventa così elastica; la sua capacità di trazione aumenta e migliora la resistenza al calore. Successivamente il materiale viene lisciviato, in modo da eliminare sostanze idrosolubili. Alla fine il preservativo viene sfilato dalla forma. In pratica attualmente abbiamo fabbriche pressoché interamente automatizzate che immergono allo stesso tempo moltissime forme in enormi contenitori pieni di latice.
L’integrità strutturale del materiale di latice dipende dalla formazione di una pellicola di particelle di gomma saldate fra loro. Il materiale deve soddisfare a requisiti severissimi, se si vuole che formi una barriera per i virus, che sono incredibilmente piccoli. È possibile che talora la saldatura delle particelle di gomma sia impedita dalla presenza di sostanze idrosolubili, dando luogo, dope la lisciviatura, a strutture capillari. Per quanto l’intenzione dei produttori sia che queste strutture capillari dopo l’asciugatura della pehhicola si saldino tra loro, l’osservazione al microscopio elettronico dimostra che di fatto la pellicola continua a presentare, alla fine del processo, una grande quantità di pori.
Descrivendo questa ricerca in un articolo nella rivista specializzata Rubber World del 1993 (6), C.M. Roland, Capo della sezione «Proprietà dei polimeri» del Naval Research Laboratory di Washington, scrive: «Sulla superficie del preservativo la struttura onginale appare al microscopio come un insieme di crateri e pori. I crateri hanno un diametro di circa 15 micron e sono profondi 30 micron. Più importante per la trasmissione dei virus è la scoperta di canali del diametro medio di 5 micron, che trapassano la parete da parte a parte. Ciò significa un collegamento diretto tra l’interno e l’esterno del preservativo attraverso un condotto grande 50 voile il virus».
Questa scoperta portö Roland a scrivere una lettera allo Washington Post (7), nella quale raccomandava, come profilassi contro lo Hiv, di usare due preservatiVi, l’uno sopra l’altro.

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Messaggio Da spe salvi Mar 24 Mar 2009, 15:04

La legge di Poisseulle

Alla luce della scoperta di questi canali fatta da Roland si può anche capire meglio perché mai questo test di permeabilità non sia affidabile. Infatti il test di permeabilità ha per oggetto il flusso di una certa quantità di liquido che, nel caso del preservativo, scorre attraverso un tubo breve e molto stretto. La legge di Poisseulle dice che la quantità «q» di liquido che fuoriesce è direttamente proporzionale alla quarta potenza del raggio «r» del tubo.
Se la differenza di pressione tra le estremità del tubo nmane uguale, come pure la viscosità del liquido e la lunghezza del tubo, è chiaro che se il tubo si restringe (=diminuzione del raggio «r») la sensibilità del test (=la quantità di liquido «q») diminuisce rapidissimamente (alla quarta potenza di «r») in tubetti dalle misure capillari, che cioè raggiungono rapidamente valori minori di 1 microlitro, che e il limite della percepibilità visiva. L’applicazione del test di permeabilità ai preservativi si fonda sulla supposizione erronea che preservativi che non lasciano passare l’acqua — per lo meno non in quantità visibili — impediranno anche il passaggio dello Hiv, dal momento che le molecole d’acqua sono più piccole del virus.
Il test di permeabilità, come lo si applica attualmente, riesce a rintracciare soltanto quelle perdite e rotture che sono così grandi che l’acqua fuoriuscitane è visibile a occhio nudo. A quanto pare l’hanno già capito i Centers for Disease Control (Cdc) americani, che hanno commissionato all’Università di Atlanta lo studio di un nuovo test per i preservativi. I canaletti individuati nelle pareti di preservativi e guanti di gomma sono vasi capillari; e nel passaggio di liquidi nei vasi capillari non agisce solo la pressione idrostatica, ma anche la tensione superficiale. Se si usano mezzi che riducono questa tensione superficiale, la permeabilità non farà che aumentare. È quello che succede quando i preservativi vengono bagnati con lubrificanti e spermicidi, che spesso sono composti di oli e grassi. Ecco perché alcuni produttori di preservativi raccomandano di usare per questo trattamento solo prodotti a base di acqua. Si sente talora obiettare che il virus Hiv non circola libero nello sperma ma si trattiene nei globuli bianchi (cellule «helper» Cd4); tutto dipenderebbe allora dalla risposta alla questione se queste cellule o linfociti, che sono piü grandi del virus, possano o no oltrepassare la parete del preservativo. La risposta è duplice. In primo luogo è vero che i virus contenuti nello sperma si trovano per lo più, come avviene pure nel sangue, rinchiusi in questi linfociti e non negli spermatozoi; ma solo per un tempo limitato. A un certo momento, infatti, le cellule ospitanti scoppiano e i virus si diffondono nel liquido seminale. In secondo luogo le cellule helper Cd4 sono fatte in modo tale da poter raggiungere qualsiasi punto del corpo, come i globuli rossi. Il loro diametro varia da 5 a 20 micron e possono quindi essere più grandi del diametro dei canaletti individuati in preservativi e guanti. Ma sono deformabili e possono passare pertanto attraverso le ramificazioni più sottili del sistema circolatorio, cioè vasi di diametro tra i 5 e i 10 micron; tali condizioni possono benissimo verificarsi pure nei preservativi.
Sara bene tener presente che tutte queste ricerche sono state eseguite su guanti e preservativi di recente fabbricazione, senza tener conto dello scadimento di qualità che sopravviene col passare del tempo. Per esempio la possibilità di lacerazioni aumenta dal 3,6% per i preservativi nuovi al 18,6% per i preservativi che hanno già un po’ di anni (8), e aumenta pure in ragione dell’aumento della temperatura ambientale; sbaglia pertanto chi pensa di combattere l’Aids in Africa stimolando l’uso del preservativo, dato che in molti Paesi di questo continente funestato dall’epidemia il clima è molto caldo.
Com’è la situazione di fatto? Questi risultati di ricerche di laboratorio trovano riscontro nel fallimento della prevenzione dell’Aids? Su questo argomento sono già state pubblicate molte statistiche e segnalate percentuali di insuccesso. Ma la maniera migliore per testare nella realtà la sicurezza offerta dai preservativi è lo studio della frequenza della trasmissione del virus tra coppie eterosessuali Hiv-discordi, cioè le coppie di marito e moglie nelle quali uno solo dei due è sieropositivo.

Una probabilità del 30%

Una sola ncerca (9) è stata fatta partendo da questo requisito e allo stesso tempo soddisfacendo alle condizioni che la sieropositività fosse stata costatata in base all’esame del sangue (test Elisa e Western Blot) e che i preservativi si usassero regolarmente nel corso di un anno. Furono esclusi dall’esperimento soggetti che si drogavano per via endovenosa e soggetti che avevano subito trasfusioni di sangue. I risultati hanno dimostrato che l’uso del preservativo diminuisce del 69% la probabilità di contrarre l’infezione da Hiv. Ma nei casi in cui entravano in gioco fattori come una notevole gravità delle condizioni del paziente, la pratica del coito anale, l’essere stati affetti da malattie a trasmissione sessuale, rapporti sessuali con un gran numero di partner diversi e l’uso della «spirale», non si poteva piü parlare di una diminuzione significativa del rischio per chi usava i preservativi (10). Quindi il preservativo diminuisce la possibilità di contrarre l’infezione da Hiv, ma non la esciude affatto. Quello che rende particolarmente significativa una tale ricerca, condotta su coppie di marito e moglie Hiv-discordi, è la certezza che due coniugi che sanno chi dei due è sieropositivo, il preservativo lo useranno con regolarità, per evitare che l’altro partner venga infettato.
Sara un caso, ma la probabilità di infezione del 30% che risulta da questa ricerca coincide con l’esito della prova anteriormente descritta fatta con le microsfere fluorescenti, in cui la terza parte dei preservativi esaminati risultò permeabile per queste palline delle stesse dimensioni del virus Hiv.
Di che sicurezza gode, allora, chi segue il consiglio dello slogan olandese «Faccio l’amore sicuro o non lo faccio per niente» o obbedisce al più secco e imperativo «Mettitelo!» della campagna pubblicitaria dei nostri vicini belgi? Vediamo un po’ di pareri autorevoli.
La Dr. Helen Singer Kaplan, sessuologa e direttrice dello «Human Sexuality Program» del Medical Center della Cornell University di New York, dcrive nel suo libro The Real Truth about Women and Aids (Simon and Schuster, 1987): «Counting on condoms is flirting with death» («Contare sui preservativi è far la corte alla morte»).
La «Rivista Medica Olandese», 135 (1991), n. 41: «La pratica dimostra che c’è un grande bisogno di un mezzo che prevenga tanto lo Hiv quanto la gravidanza. Purtroppo la gente non si è ancora resa ben conto che questo mezzo non può essere il preservativo».
In una lettera di un medico del Ministero della Sanità olandese, datata 26 maggio 1993 e indirizzata a un cittadino che aveva manifestato la sua preoccupazione, si legge: «Le norme qualitative in Olanda sono esigenti. Le ricerche effettuate hanno dimostrato che la probabilità di perdite e lacerazioni è tra l’1% e il 13%. Ciò significa che il preservativo diminuisce notevolmente la possibilità di contrarre per via sessuale un’infezione da Hiv».
Un fax del 14 giugno 1993 di una fabbrica danese a un importatore olandese dice che i consumatori di preservativi possono aspettarsi nei prossimi anni «uno scadimento di qualità pari al 36%, come conseguenza dell’equiparazione delle direttive di fabbricazion in ambito Cee: i requisiti sono infatti molto meno severi in Paesi come la Spagna, il Portogallo e l’Italia che da noi».
Si potrà a questo punto obiettare che l’insuccesso del preservativo nella prevenzione della gravidanza e dell’infezione da Hiv non è dovuto esclusivamente a perdite. Ci sono infatti anche altre cause come le lacerazioni, l’uso sconsiderato, lo sfilamento, ecc. Ma con tutto ciò sarebbe irragionevole prescindere dai risultati delle ricerche sulle perdite dei preservativi, condotte da esperti nel campo della gomma. Tanto più che la pubblicazione delle loro conclusioni è prova della loro obiettività, dal momento che tali risultati non si può certo dire che depongano a favore dei prodotti della loro stessa industria. Al contrario, voci maliziose insinuano che, pubblicando questi risultati, l’industria della gomma cerchi di mettere le mani avanti per prevenire eventuali richieste di risarcimento di danni da parte di consumatori di preservativi che abbiano contratto l’infezione da Hiv.
In netto contrasto con quesste dichiarazioni e pubblicazioni, il Consiglio olandese per la pubblicità (Nederlandse Reclameraad), interpellato da un esposto che sosteneva il carattere mistificatorio e scandaloso dello slogan «Faccio l’amore sicuro o non lo faccio per niente» ha emesso l’11 agosto 1993 una decisione che suona così: «A giudizio del Consiglio la frase “faccio l’amore sicuro” non può essere intesa nel senso assoluto che questa parola ha secondo l’autore dell’esposto e secondo il “Grande vocabolario Van Dale della lingua neerlandese”. La sicurezza assoluta in pratica non esiste. [...] Nel contesto in cui viene usata, la parola “sicuro” (“veilig”) non la si può intendere altrimenti che nel senso che un preservativo offre un grado elevato di sicurezza, per cui il pericolo di infezione da virus dell’Aids viene notevolmente ridotto».
Ma a prescindere dalla presunzione del Reclameraad di ritenersi piü autorevole del Van Dale come interprete della lingua neerlandese, lo slogan contro cui si è sporto il reclamo, alla luce delle ricerche di cui abbiamo parlato, risulta essere tutt’altro che un consiglio sicuro.
Soprattutto per i giovani, che non pare si preoccupino tanto di che cosa ci sia di vero in questa millantata sicurezza, un simile consiglio può essere piuttosto uno stimolo a «provarci» ogni tanto. proprio perché invogliati da questa propaganda del preservativo. Un’infezione da Hiv è tuttora una malattia mortale, ma a chi mette in giro questa pubblicità col finanziamento, in questo caso, del Ministero della Sanità non pare che importi molto di avere cadaveri sulla coscienza. Sarebbe ora che non solo queste persone, ma tutti noi cominciassimo a capire che soltanto il recupero di una visione cristiana della vita e della concezione monogamica della sessualità garantiscono una difesa contro la diffusione dello Hiv. La vera causa delI’Aids sta infatti nella «Acquired “Integrity” Deficiency Syndrome», cioè nella perdita di integrità morale che ci ha regalato l’ideologia della «libertà» sessuale. Chi non arriva a capirlo o fa finta di non vederlo sappia per lo meno che di sicurezza, il preservativo, ne offre tanta quanta il tamburo di un revolver nella roulette russa.

Joannes P.M. Lelkens

(1) J. TRUSSEL - K. KOST, Contraceptive Failure in the United States: a Critical Review of the Literature, in «Studies of Family» 18 (1987), pp. 237-283.
(2) FDA, Letter to U.S. Condom Manufacturers, 7 aprile 1987.
(3) JOHN HOPKINS UNIVERSITY, «Population Reports», vol. XVIII, n. 3, serie H, n. 8, 1990; «American Journal of Nursing», ottobre 1987, p. 1306.
(4) G.B. DAVIS - L.W. SCHROEDER, in «Journal of Testing and Evaluation», 18 (1990) 352.
(5) R.F. CAREY e altri, Sexually transmitted Diseases, 19 (1992), p. 230.
(6) C.M. ROLAND, The Barrier Performance of Latex Rubber, in «Rubber World», giugno 1993, p. 15.
(7) «Washington Post», 39 (1992), 3 luglio, p. 22.
(8) M. STEINER e altri, Contracception, 1992. pp. 46,279.
(9) SUSAN C. WELLER, A Meta-Analysis of Condom Effectiveness in reducing sexually transmitted Hiv, in «Soc. Sci. Med.», vol. 36 (1993), n. 12, pp. 1635-1644.
(10) EUROPEAN STUDY GROUP, Risk Factors for Male to Female Transmission of Hiv, in «British Medical Journal», 298 (1989), pp.411-415.

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