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ALLOCUZIONE DEL SANTO PADRE per l'incontro con gli Universitari a La Sapienza

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Messaggio Da fidem custodire Sab 19 Apr 2008, 16:26

Magnifico Rettore,
Autorità politiche e civili,
Illustri docenti e personale tecnico amministrativo,
cari giovani studenti!


È per me motivo di profonda gioia incontrare la comunità della "Sapienza - Università di Roma" in occasione della inaugurazione dell’anno accademico. Da secoli ormai questa Università segna il cammino e la vita della città di Roma, facendo fruttare le migliori energie intellettuali in ogni campo del sapere. Sia nel tempo in cui, dopo la fondazione voluta dal Papa Bonifacio VIII, l’istituzione era alle dirette dipendenze dell’Autorità ecclesiastica, sia successivamente quando lo Studium Urbis si è sviluppato come istituzione dello Stato italiano, la vostra comunità accademica ha conservato un grande livello scientifico e culturale, che la colloca tra le più prestigiose università del mondo.

Da sempre la Chiesa di Roma guarda con simpatia e ammirazione a questo centro universitario, riconoscendone l’impegno, talvolta arduo e faticoso, della ricerca e della formazione delle nuove generazioni. Non sono mancati in questi ultimi anni momenti significativi di collaborazione e di dialogo. Vorrei ricordare, in particolare, l’Incontro mondiale dei Rettori in occasione del Giubileo delle Università, che ha visto la vostra comunità farsi carico non solo dell’accoglienza e dell’organizzazione, ma soprattutto della profetica e complessa proposta della elaborazione di un "nuovo umanesimo per il terzo millennio".

Mi è caro, in questa circostanza, esprimere la mia gratitudine per l’invito che mi è stato rivolto a venire nella vostra università per tenervi una lezione. In questa prospettiva mi sono posto innanzitutto la domanda: Che cosa può e deve dire un Papa in un’occasione come questa? Nella mia lezione a Ratisbona ho parlato, sì, da Papa, ma soprattutto ho parlato nella veste del già professore di quella mia università, cercando di collegare ricordi ed attualità. Nell’università "Sapienza", l’antica università di Roma, però, sono invitato proprio come Vescovo di Roma, e perciò debbo parlare come tale.

Certo, la "Sapienza" era un tempo l’università del Papa, ma oggi è un’università laica con quell’autonomia che, in base al suo stesso concetto fondativo, ha fatto sempre parte della natura di università, la quale deve essere legata esclusivamente all’autorità della verità. Nella sua libertà da autorità politiche ed ecclesiastiche l’università trova la sua funzione particolare, proprio anche per la società moderna, che ha bisogno di un’istituzione del genere.

Ritorno alla mia domanda di partenza: Che cosa può e deve dire il Papa nell’incontro con l’università della sua città? Riflettendo su questo interrogativo, mi è sembrato che esso ne includesse due altri, la cui chiarificazione dovrebbe condurre da sé alla risposta. Bisogna, infatti, chiedersi: Qual è la natura e la missione del Papato? E ancora: Qual è la natura e la missione dell’università?

Non vorrei in questa sede trattenere Voi e me in lunghe disquisizioni sulla natura del Papato. Basti un breve accenno. Il Papa è anzitutto Vescovo di Roma e come tale, in virtù della successione all’Apostolo Pietro, ha una responsabilità episcopale nei riguardi dell’intera Chiesa cattolica. La parola "vescovo"–episkopos, che nel suo significato immediato rimanda a "sorvegliante", già nel Nuovo Testamento è stata fusa insieme con il concetto biblico di Pastore: egli è colui che, da un punto di osservazione sopraelevato, guarda all’insieme, prendendosi cura del giusto cammino e della coesione dell’insieme.

In questo senso, tale designazione del compito orienta lo sguardo anzitutto verso l’interno della comunità credente. Il Vescovo – il Pastore – è l’uomo che si prende cura di questa comunità; colui che la conserva unita mantenendola sulla via verso Dio, indicata secondo la fede cristiana da Gesù – e non soltanto indicata: Egli stesso è per noi la via. Ma questa comunità della quale il Vescovo si prende cura – grande o piccola che sia – vive nel mondo; le sue condizioni, il suo cammino, il suo esempio e la sua parola influiscono inevitabilmente su tutto il resto della comunità umana nel suo insieme. Quanto più grande essa è, tanto più le sue buone condizioni o il suo eventuale degrado si ripercuoteranno sull’insieme dell’umanità. Vediamo oggi con molta chiarezza, come le condizioni delle religioni e come la situazione della Chiesa – le sue crisi e i suoi rinnovamenti – agiscano sull’insieme dell’umanità. Così il Papa, proprio come Pastore della sua comunità, è diventato sempre di più anche una voce della ragione etica dell’umanità.

Qui, però, emerge subito l’obiezione, secondo cui il Papa, di fatto, non parlerebbe veramente in base alla ragione etica, ma trarrebbe i suoi giudizi dalla fede e per questo non potrebbe pretendere una loro validità per quanti non condividono questa fede. Dovremo ancora ritornare su questo argomento, perché si pone qui la questione assolutamente fondamentale: Che cosa è la ragione? Come può un’affermazione – soprattutto una norma morale – dimostrarsi "ragionevole"?

A questo punto vorrei per il momento solo brevemente rilevare che John Rawls, pur negando a dottrine religiose comprensive il carattere della ragione "pubblica", vede tuttavia nella loro ragione "non pubblica" almeno una ragione che non potrebbe, nel nome di una razionalità secolaristicamente indurita, essere semplicemente disconosciuta a coloro che la sostengono. Egli vede un criterio di questa ragionevolezza fra l’altro nel fatto che simili dottrine derivano da una tradizione responsabile e motivata, in cui nel corso di lunghi tempi sono state sviluppate argomentazioni sufficientemente buone a sostegno della relativa dottrina. In questa affermazione mi sembra importante il riconoscimento che l’esperienza e la dimostrazione nel corso di generazioni, il fondo storico dell’umana sapienza, sono anche un segno della sua ragionevolezza e del suo perdurante significato. Di fronte ad una ragione a-storica che cerca di autocostruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza dell’umanità come tale – la sapienza delle grandi tradizioni religiose – è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee.


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Messaggio Da fidem custodire Sab 19 Apr 2008, 16:27

Ritorniamo alla domanda di partenza. Il Papa parla come rappresentante di una comunità credente, nella quale durante i secoli della sua esistenza è maturata una determinata sapienza della vita; parla come rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l’intera umanità: in questo senso parla come rappresentante di una ragione etica.

Ma ora ci si deve chiedere: E che cosa è l’università? Qual è il suo compito?

È una domanda gigantesca alla quale, ancora una volta, posso cercare di rispondere soltanto in stile quasi telegrafico con qualche osservazione. Penso si possa dire che la vera, intima origine dell’università stia nella brama di conoscenza che è propria dell’uomo. Egli vuol sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda. Vuole verità. In questo senso si può vedere l’interrogarsi di Socrate come l’impulso dal quale è nata l’università occidentale. Penso ad esempio – per menzionare soltanto un testo – alla disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione mitica e la sua devozione. A ciò Socrate contrappone la domanda: "Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti … Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero?" (6 b – c). In questa domanda apparentemente poco devota – che, però, in Socrate derivava da una religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca del Dio veramente divino – i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino.

Hanno accolto la loro fede non in modo positivista, o come la via d’uscita da desideri non appagati; l’hanno compresa come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione creatrice e al contempo Ragione-Amore. Per questo, l’interrogarsi della ragione sul Dio più grande come anche sulla vera natura e sul vero senso dell’essere umano era per loro non una forma problematica di mancanza di religiosità, ma faceva parte dell’essenza del loro modo di essere religiosi. Non avevano bisogno, quindi, di sciogliere o accantonare l’interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera. Poteva, anzi doveva così, nell’ambito della fede cristiana, nel mondo cristiano, nascere l’università.

È necessario fare un ulteriore passo. L’uomo vuole conoscere – vuole verità. Verità è innanzitutto una cosa del vedere, del comprendere, della theoría, come la chiama la tradizione greca. Ma la verità non è mai soltanto teorica. Agostino, nel porre una correlazione tra le Beatitudini del Discorso della Montagna e i doni dello Spirito menzionati in Isaia 11, ha affermato una reciprocità tra "scientia" e "tristitia": il semplice sapere, dice, rende tristi. E di fatto – chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo, finisce per diventare triste. Ma verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene. Questo è anche il senso dell’interrogarsi socratico: Qual è quel bene che ci rende veri? La verità ci rende buoni, e la bontà è vera: è questo l’ottimismo che vive nella fede cristiana, perché ad essa è stata concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell’incarnazione di Dio, si è rivelata insieme come il Bene, come la Bontà stessa.

Nella teologia medievale c’è stata una disputa approfondita sul rapporto tra teoria e prassi, sulla giusta relazione tra conoscere ed agire – una disputa che qui non dobbiamo sviluppare. Di fatto l’università medievale con le sue quattro Facoltà presenta questa correlazione. Cominciamo con la Facoltà che, secondo la comprensione di allora, era la quarta, quella di medicina. Anche se era considerata più come "arte" che non come scienza, tuttavia, il suo inserimento nel cosmo dell’universitas significava chiaramente che era collocata nell’ambito della razionalità, che l’arte del guarire stava sotto la guida della ragione e veniva sottratta all’ambito della magia. Guarire è un compito che richiede sempre più della semplice ragione, ma proprio per questo ha bisogno della connessione tra sapere e potere, ha bisogno di appartenere alla sfera della ratio. Inevitabilmente appare la questione della relazione tra prassi e teoria, tra conoscenza ed agire nella Facoltà di giurisprudenza.

Si tratta del dare giusta forma alla libertà umana che è sempre libertà nella comunione reciproca: il diritto è il presupposto della libertà, non il suo antagonista. Ma qui emerge subito la domanda: Come s’individuano i criteri di giustizia che rendono possibile una libertà vissuta insieme e servono all’essere buono dell’uomo? A questo punto s’impone un salto nel presente: è la questione del come possa essere trovata una normativa giuridica che costituisca un ordinamento della libertà, della dignità umana e dei diritti dell’uomo.

È la questione che ci occupa oggi nei processi democratici di formazione dell’opinione e che al contempo ci angustia come questione per il futuro dell’umanità. Jürgen Habermas esprime, a mio parere, un vasto consenso del pensiero attuale, quando dice che la legittimità di una carta costituzionale, quale presupposto della legalità, deriverebbe da due fonti: dalla partecipazione politica egualitaria di tutti i cittadini e dalla forma ragionevole in cui i contrasti politici vengono risolti. Riguardo a questa "forma ragionevole" egli annota che essa non può essere solo una lotta per maggioranze aritmetiche, ma che deve caratterizzarsi come un "processo di argomentazione sensibile alla verità" (wahrheitssensibles Argumentationsverfahren). È detto bene, ma è cosa molto difficile da trasformare in una prassi politica. I rappresentanti di quel pubblico "processo di argomentazione" sono – lo sappiamo – prevalentemente i partiti come responsabili della formazione della volontà politica.

Di fatto, essi avranno immancabilmente di mira soprattutto il conseguimento di maggioranze e con ciò baderanno quasi inevitabilmente ad interessi che promettono di soddisfare; tali interessi però sono spesso particolari e non servono veramente all’insieme. La sensibilità per la verità sempre di nuovo viene sopraffatta dalla sensibilità per gli interessi. Io trovo significativo il fatto che Habermas parli della sensibilità per la verità come di elemento necessario nel processo di argomentazione politica, reinserendo così il concetto di verità nel dibattito filosofico ed in quello politico.

Ma allora diventa inevitabile la domanda di Pilato: Che cos’è la verità? E come la si riconosce? Se per questo si rimanda alla "ragione pubblica", come fa Rawls, segue necessariamente ancora la domanda: Che cosa è ragionevole? Come una ragione si dimostra ragione vera?

In ogni caso, si rende in base a ciò evidente che, nella ricerca del diritto della libertà, della verità della giusta convivenza devono essere ascoltate istanze diverse rispetto a partiti e gruppi d’interesse, senza con ciò voler minimamente contestare la loro importanza. Torniamo così alla struttura dell’università medievale. Accanto a quella di giurisprudenza c’erano le Facoltà di filosofia e di teologia, a cui era affidata la ricerca sull’essere uomo nella sua totalità e con ciò il compito di tener desta la sensibilità per la verità. Si potrebbe dire addirittura che questo è il senso permanente e vero di ambedue le Facoltà: essere custodi della sensibilità per la verità, non permettere che l’uomo sia distolto dalla ricerca della verità. Ma come possono esse corrispondere a questo compito? Questa è una domanda per la quale bisogna sempre di nuovo affaticarsi e che non è mai posta e risolta definitivamente. Così, a questo punto, neppure io posso offrire propriamente una risposta, ma piuttosto un invito a restare in cammino con questa domanda – in cammino con i grandi che lungo tutta la storia hanno lottato e cercato, con le loro risposte e con la loro inquietudine per la verità, che rimanda continuamente al di là di ogni singola risposta.

Teologia e filosofia formano in ciò una peculiare coppia di gemelli, nella quale nessuna delle due può essere distaccata totalmente dall’altra e, tuttavia, ciascuna deve conservare il proprio compito e la propria identità. È merito storico di san Tommaso d’Aquino – di fronte alla differente risposta dei Padri a causa del loro contesto storico – di aver messo in luce l’autonomia della filosofia e con essa il diritto e la responsabilità propri della ragione che s’interroga in base alle sue forze. Differenziandosi dalle filosofie neoplatoniche, in cui religione e filosofia erano inseparabilmente intrecciate, i Padri avevano presentato la fede cristiana come la vera filosofia, sottolineando anche che questa fede corrisponde alle esigenze della ragione in ricerca della verità; che la fede è il "sì" alla verità, rispetto alle religioni mitiche diventate semplice consuetudine. Ma poi, al momento della nascita dell’università, in Occidente non esistevano più quelle religioni, ma solo il cristianesimo, e così bisognava sottolineare in modo nuovo la responsabilità propria della ragione, che non viene assorbita dalla fede.

Tommaso si trovò ad agire in un momento privilegiato: per la prima volta gli scritti filosofici di Aristotele erano accessibili nella loro integralità; erano presenti le filosofie ebraiche ed arabe, come specifiche appropriazioni e prosecuzioni della filosofia greca. Così il cristianesimo, in un nuovo dialogo con la ragione degli altri, che veniva incontrando, dovette lottare per la propria ragionevolezza.

La Facoltà di filosofia che, come cosiddetta "Facoltà degli artisti", fino a quel momento era stata solo propedeutica alla teologia, divenne ora una Facoltà vera e propria, un partner autonomo della teologia e della fede in questa riflessa. Non possiamo qui soffermarci sull’avvincente confronto che ne derivò. Io direi che l’idea di san Tommaso circa il rapporto tra filosofia e teologia potrebbe essere espressa nella formula trovata dal Concilio di Calcedonia per la cristologia: filosofia e teologia devono rapportarsi tra loro "senza confusione e senza separazione". "Senza confusione" vuol dire che ognuna delle due deve conservare la propria identità.

La filosofia deve rimanere veramente una ricerca della ragione nella propria libertà e nella propria responsabilità; deve vedere i suoi limiti e proprio così anche la sua grandezza e vastità. La teologia deve continuare ad attingere ad un tesoro di conoscenza che non ha inventato essa stessa, che sempre la supera e che, non essendo mai totalmente esauribile mediante la riflessione, proprio per questo avvia sempre di nuovo il pensiero. Insieme al "senza confusione" vige anche il "senza separazione": la filosofia non ricomincia ogni volta dal punto zero del soggetto pensante in modo isolato, ma sta nel grande dialogo della sapienza storica, che essa criticamente e insieme docilmente sempre di nuovo accoglie e sviluppa; ma non deve neppure chiudersi davanti a ciò che le religioni ed in particolare la fede cristiana hanno ricevuto e donato all’umanità come indicazione del cammino.

Varie cose dette da teologi nel corso della storia o anche tradotte nella pratica dalle autorità ecclesiali, sono state dimostrate false dalla storia e oggi ci confondono. Ma allo stesso tempo è vero che la storia dei santi, la storia dell’umanesimo cresciuto sulla basa della fede cristiana dimostra la verità di questa fede nel suo nucleo essenziale, rendendola con ciò anche un’istanza per la ragione pubblica. Certo, molto di ciò che dicono la teologia e la fede può essere fatto proprio soltanto all’interno della fede e quindi non può presentarsi come esigenza per coloro ai quali questa fede rimane inaccessibile. È vero, però, al contempo che il messaggio della fede cristiana non è mai soltanto una "comprehensive religious doctrine" nel senso di Rawls, ma una forza purificatrice per la ragione stessa, che aiuta ad essere più se stessa. Il messaggio cristiano, in base alla sua origine, dovrebbe essere sempre un incoraggiamento verso la verità e così una forza contro la pressione del potere e degli interessi.

Ebbene, finora ho solo parlato dell’università medievale, cercando tuttavia di lasciar trasparire la natura permanente dell’università e del suo compito. Nei tempi moderni si sono dischiuse nuove dimensioni del sapere, che nell’università sono valorizzate soprattutto in due grandi ambiti: innanzitutto nelle scienze naturali, che si sono sviluppate sulla base della connessione di sperimentazione e di presupposta razionalità della materia; in secondo luogo, nelle scienze storiche e umanistiche, in cui l’uomo, scrutando lo specchio della sua storia e chiarendo le dimensioni della sua natura, cerca di comprendere meglio se stesso. In questo sviluppo si è aperta all’umanità non solo una misura immensa di sapere e di potere; sono cresciuti anche la conoscenza e il riconoscimento dei diritti e della dignità dell’uomo, e di questo possiamo solo essere grati.

Ma il cammino dell’uomo non può mai dirsi completato e il pericolo della caduta nella disumanità non è mai semplicemente scongiurato: come lo vediamo nel panorama della storia attuale! Il pericolo del mondo occidentale – per parlare solo di questo – è oggi che l’uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verità. E ciò significa allo stesso tempo che la ragione, alla fine, si piega davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo. Detto dal punto di vista della struttura dell’università: esiste il pericolo che la filosofia, non sentendosi più capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che la teologia col suo messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella sfera privata di un gruppo più o meno grande. Se però la ragione – sollecita della sua presunta purezza – diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola. Applicato alla nostra cultura europea ciò significa: se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la convince e – preoccupata della sua laicità – si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma.

Con ciò ritorno al punto di partenza. Che cosa ha da fare o da dire il Papa nell’università? Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà. Al di là del suo ministero di Pastore nella Chiesa e in base alla natura intrinseca di questo ministero pastorale è suo compito mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro.

Dal Vaticano, 17 gennaio 2008

BENEDICTUS XVI

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ALLOCUZIONE DEL SANTO PADRE per l'incontro con gli Universitari a La Sapienza Empty L'università di Bologna s'interroga sul discorso del Papa a La Sapienza

Messaggio Da spe salvi Sab 19 Apr 2008, 17:04

Arroganza scientifica anticamera del totalitarismo

Fabio Ruggiero
Che cosa significano oggi in Italia nozioni come laicità, libertà, confronto, cultura? Se ne è parlato ieri all'università diBologna all'incontro "Benedetto XVI e La Sapienza. Una lezione da non perdere". Una riflessione sulla lezione magistrale del Papa preparata e poi non tenuta, per i noti motivi, per l'inaugurazione dell'anno accademico dell'università La Sapienza di Roma. L'incontro, promosso dall'Istituto Veritatis Splendor - sorto per iniziativa del cardinale Giacomo Biffi e presieduto oggigiorno dal suo successore, il cardinale Carlo Caffarra - e dal Centro Culturale Enrico Manfredini, e che ha visto la pronta adesione di numerose altre realtà cattoliche, si inserisce nel dibattito che in questi giorni ha coinvolto in città numerosi intellettuali, uomini di cultura e delle istituzioni.

Sono intervenuti Pier Ugo Calzolari, magnifico rettore dell'università di Bologna, Giorgio Israel, ordinario di matematiche complementari presso l'università di Roma La Sapienza, monsignor Lino Goriup, vicario episcopale per la cultura e per la comunicazione della Chiesa di Bologna.

Ha moderato l'incontro Ivo Colozzi, ordinario di sociologia presso l'università di Bologna, che ha subito letto un testo inviato dall'arcivescovo, assente a causa di impegni improrogabili. Nel suo messaggio di saluto, il cardinale Caffarra, dopo avere ringraziato organizzatori e intervenuti, ha ricordato come il Papa, nel suo Magistero, richiami costantemente la ragione a fare un uso illimitato di se stessa. "C'è - osserva l'arcivescovo di Bologna - in questo richiamo l'incontro di temi teoretici e di preoccupazione pastorale, di cui giova fare almeno un fugace accenno".

L'invito alla ragione a non auto-imprigionarsi dentro ai fenomeni verificabili è un invito fatto all'uomo, ad ogni uomo, a non rinunciare a cercare risposta a nessuna domanda sensata; a non accontentarsi del "frammento" ed alla somma dei medesimi, ma a cercare la verità ultima e il senso radicale dell'intero. È questo il "desiderio estremo" dell'uomo, come lo chiama Cartesio nel Discorso sul metodo. "Le difficoltà di questa ricerca - ha aggiunto - sono al contempo segno della grandezza e della miseria umana, come scrisse Hegel: "Una calza rammendata è meglio di una calza lacerata: non così per l'autocoscienza".

Anche se la ragione non trovasse il filo per rammendarla, la lacerazione che essa compie dentro al reticolato del finito lascerebbe pur sempre la possibilità all'Infinito di entrarvi". Rivolgendosi poi ai molti giovani presenti, dopo avere richiamato loro Dante - "fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtude e canoscenza" - li ha così esortati: "Non spegnete nessuna domanda che sorga dal vostro cuore. La ricerca e il possesso della verità sia la vostra gioia più pura. Forse la più bella definizione di università è stata data da Alberto Magno: in dulcedine societatis quarere veritatem. La dolcezza di una condivisa ricerca della verità, cari giovani, è ciò che vi auguro".

Nel suo intervento Calzolari ha messo in evidenza il valore e il limite della scienza, il rischio del riduzionismo di stampo positivistico, il significato della laicità rettamente intesa, deprecando il provincialismo culturale che ha caratterizzato "la vicenda assai triste del mancato incontro de La Sapienza" nonché i toni con cui anche nei giorni seguenti si pretendeva di difendere una mal compresa nozione di autonomia culturale dell'università. Il rettore ha fatto notare l'inconsistenza razionale di quanti hanno sostenuto l'impossibilità di discutere con chi, come il Papa, a loro modo di vedere, ritiene di essere già in possesso della verità. In realtà, una simile maniera di argomentare costituisce un vero e proprio cortocircuito logico, che, portato agli estremi, può condurre a una sorta di "inquisizione laica", profondamente illiberale.

L'incidente di Roma avrebbe sconsolatamente mostrato come il pensiero laico meno preparato abbia perso l'orientamento, dimenticandosi del principio dell'autonomia, che postula necessariamente il confronto con l'altro, l'atteggiamento dialogico.

A molti è sfuggito - ha proseguito Calzolari - che la laicità è un prodotto della cultura cristiana e che la scienza ha avuto in un frate francescano, Guglielmo di Occam, un sostenitore ancora più appassionato dello stesso Galileo. Dal canto suo monsignor Lino Goriup si è premurato di rimarcare l'originalità dell'approccio e dell'analisi del tema, che il Papa ha affrontato nella sua Lectio magistralis offrendone un personale vivace commento. Benedetto XVI inizia la sua riflessione interrogandosi sul significato dell'invito e della sua presenza. In quanto vescovo di Roma egli rivolge la propria autorevole parola ai credenti in Cristo; ma come testimone di una venerabile tradizione di scienza e di sapienza, incarnata dalla Chiesa cattolica, egli si propone anche come rappresentante di una ragionevole "sapienza umana" - il rimando è evidentemente all'Apologia di Platone - che, illuminata dalla notizia centrale della Rivelazione - l'Incarnazione del Logos divino in Cristo Gesù - può a buon diritto farsi voce di una domanda universale del cuore umano oltre che proporsi maestra di vita e di pensiero.

Monsignor Goriup ha successivamente stabilito una suggestiva relazione tra l'allocuzione per La Sapienza e il discorso che il Papa tenne a Pavia nel corso della sua visita pastorale del 22 aprile 2007. Anche in quella circostanza incoraggiò il mondo accademico a ritrovare il senso dell'appassionata e assidua ricerca del vero inteso come verità della vita e per la vita. "Aver reso impossibile l'ascolto della proposta intellettuale e intelligente della Chiesa - ha poi concluso - significa aver perso l'occasione di un prezioso richiamo ad allargare gli orizzonti di una ragione che finisce per smarrirsi quando rinchiude se stessa e il mondo nei limiti della prevedibilità e della ripetizione".

Da ultimo è intervenuto Giorgio Israel, matematico e intellettuale ebreo, anche lui ordinario a La Sapienza e duramente attaccato, nelle settimane scorse, per la sua difesa di Benedetto XVI.

Il docente ha spiegato anzitutto le ragioni della propria simpatia intellettuale per il Pontefice, con cui condivide la battaglia contro una visione "ristretta" della ragione, di matrice naturalistica: oggi tutti vediamo come la razionalità astorica delle scienze fisico-matematiche venga a contrapporsi alla razionalità storica come se questa non avesse diritto di esistere.

Egli si è detto profondamente convinto che, viceversa, solo una ragione aperta alla sapienza, alla tradizione, alla storia, alla spiritualità, alla persona, al mistero, insomma ad ogni aspetto del reale e dell'essere, può veramente essere fondamento di civiltà, contro ogni deriva ideologica violenta e totalitaria.

La cultura europea ha bisogno di confrontarsi sui suoi contenuti portanti. Ha necessità di continuare a trasmettere alle nuove generazioni le proprie radici giudaico-cristiane ed elleniche, per evitare di offrire loro un mondo senza tradizioni, vuoto, la cui costruzione debba essere compiuta nello sbandamento più completo. Ha il dovere di offrire loro grandi sintesi culturali, come quelle realizzatesi nel rinascimento, quando "Atene trovò posto entro Gerusalemme", come quelle formatesi dal Seicento in poi... Benedetto XVI giustamente combatte contro un'idea arrogante di scienza secondo cui nella conoscenza naturale tutto si trova incluso: un'idea che rende tristi, perché il semplice sapere di tipo oggettivista dà soltanto il senso del proprio limite. Occorre che anche l'uomo di scienza abbia consapevolezza di essere un individuo finito, destinato a non assimilare mai tutta la verità, ma solo ad approssimarsi sempre di più ad essa.

(©L'Osservatore Romano - 2 febbraio 2008)
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ALLOCUZIONE DEL SANTO PADRE per l'incontro con gli Universitari a La Sapienza Empty I prof censurano il Papa senza neanche leggerlo

Messaggio Da spe salvi Sab 19 Apr 2008, 17:11


di Andrea Tornielli

Roma - I collettivi studenteschi hanno deciso di accoglierlo con una «frocessione» (processione inneggiante all’omosessualità) e da oggi fino a giovedì vogliono «preparare» l’ateneo con manifestazioni anticlericali per far avvertire quanto sia «sgradito» l’arrivo dell’illustre ospite. Ma l’aspetto più inquietante delle proteste per la visita di Benedetto XVI all’Università di Roma La Sapienza non sta nelle annunciate e come sempre rischiose contestazioni studentesche, quanto nei loro ideologici ispiratori, vale a dire un consistente numero di docenti. Questi ultimi, a più riprese, nei giorni scorsi hanno affidato alle colonne del quotidiano la Repubblica il loro altolà a Papa Ratzinger, «colpevole», da cardinale, il 15 marzo 1990, di aver rilanciato durante una conferenza le parole del filosofo Feyerabend, sostenendo che «il processo a Galileo fu ragionevole e giusto». Parole, scrivono 63 docenti di Fisica dell’ateneo romano auspicando la cancellazione dell’incontro, che «ci offendono e ci umiliano».
Si potrebbe supporre (purtroppo sbagliando) che i 67 firmatari siano in grado di leggere un discorso, di ricercare il testo originale, di controllare l’esattezza e il senso delle citazioni. Invece i fisici antiratzingeriani, ancora offesi e umiliati a diciassette anni di distanza, sembrano essersi fidati dell’enciclopedia on line Wikipedia e hanno acriticamente preso la citazione credendo che proprio quello fosse il pensiero espresso dall’«oscurantista» futuro Papa. Il quale, invece, aveva espresso un’altra posizione, prendendo proprio le distanze da quei ripensamenti e non facendoli assolutamente propri. Un nuovo caso Ratisbona, insomma, anche se questa volta a scoppio lievemente ritardato.
I lettori del Giornale possono giudicare da soli, leggendo lo stralcio del testo della conferenza tenuta dall’allora cardinale Ratzinger a Parma. E soffermarsi soprattutto sulle parole con le quali il porporato – che è stato professore universitario e non è certo nuovo a dialoghi e confronti con filosofi e scienziati – concludeva la rassegna di citazioni: «Sarebbe assurdo costruire sulla base di queste affermazioni una frettolosa apologetica. La fede non cresce a partire dal risentimento e dal rifiuto della razionalità, ma dalla sua fondamentale affermazione e dalla sua inscrizione in una ragionevolezza più grande». Le parole delle persone citate in quel brano non sono dunque fatte proprie da Ratzinger, che ritiene «assurdo» appropriarsene per sostenere che la Chiesa con Galileo avrebbe avuto ragione e ribadisce che la fede non cresce «dal rifiuto della razionalità». Proprio il rapporto fede-ragione e la ragionevolezza della fede cristiana sarebbe poi diventato uno dei pilastri del suo pontificato. Il testo ratzingeriano del 1990 non è rimasto inedito o sunteggiato a memoria dai giornalisti, ma è stato dato alle stampe, e in italiano, due anni dopo, in un libro di scritti dedicati all’Europa. Senza contare che la Chiesa ha riabilitato Galileo. La lettera dei 67 fisici è dunque destinata a rimanere quale esempio poco edificante di metodo scientifico. La protesta, però, un risultato l’ha ottenuto: il Papa giovedì non farà la Lectio magistralis (che sarà tenuta dal professor Mario Caravale), ma soltanto un «intervento».
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ALLOCUZIONE DEL SANTO PADRE per l'incontro con gli Universitari a La Sapienza Empty La Sapienza e la cristofobia di certi intellettuali italiani

Messaggio Da spe salvi Sab 19 Apr 2008, 17:19


L’ignoranza domina tra i presunti scienziati dell’Università La Sapienza di Roma. In 67 cattedratici vogliono impedire al Papa di parlare, anzi persino di entrare in aula magna giovedì prossimo, per l’inaugurazione dell’anno accademico.

di Renato Farina,
da "Libero" (13/01/08)


L’ignoranza domina tra i presunti scienziati dell’Università La Sapienza di Roma. In 67 cattedratici vogliono impedire al Papa di parlare, anzi persino di entrare in aula magna giovedì prossimo, per l’inaugurazione dell’anno accademico. Hanno firmato un appello, sono quasi tutti fisici. Dicono: è uno straniero, un oscurantista, ha parlato male di Galileo difendendone la condanna diciassette anni fa. Una bugia, lo vedremo. Ma procediamo.

Era stato il rettore a volere la presenza di Benedetto XVI.. Nei piani originari sarebbe dovuta toccare al Santo Padre la lectio magistralis, la prolusione che dà il tono dell’anno universitario. Poi però pareva di dare troppo onore a un Ratzinger qualunque. E il rettore ha ripiegato, cedendo alle pressioni, mettendolo al terzo o quarto posto tra i relatori, preceduto da quel fenomeno di laureato della Scuola Normale di Pisa, Fabio Mussi, oggi ministro della Ricerca, e dal sindaco Walter Veltroni. Il Papa, che è umile, non ha fatto una piega, ha detto va bene. Era abituato a dibattere con gente tipo Habermas, è stato professore nelle massime università tedesche, da Monaco a Tubinga, ma si accontentava anche di mettersi in coda al noto perito della scuola cinematografica Veltroni. Mussi e Veltroni, questi due scienziatoni da Nobel, hanno il plauso dei docenti protestatari. I quali non si sono accontentati di un malcontento sommesso. Hanno chiamato a corte le truppe. Così a costoro hanno assicurato di garantire una presenza fattivamente contestatrice di gruppi no global, che già stanno battendo su internet il loro tamburo da richiamo della foresta, per montare casini antipapali. C’è allarme ordine pubblico.

Il Papa non demorde però. Il cardinal Ruini lo sostiene, assicura che sarà accolto bene: sono migliaia i docenti felici di incontrarlo, e gli studenti pure. Dunque Ratzinger ci va lo stesso. Non vuole blindature. Il suo pensiero è che siamo come nei primi secoli della Chiesa: Saulo di Tarso parlava all’Areopago di Atena, suscitando il riso dei presunti sapienti. Lui non si sente migliore del vecchio apostolo. I primi secoli sono profezia degli ultimi. Qui faremmo alcune osservazioni. Anzitutto a Repubblica, che è il quotidiano che si fa eco di questa volontà di pulizia etnica del Papa dall’università e dunque dall’ambito culturale. Ieri ha ospitato senza repliche incredibili discorsi da repulisti razziale. La morale è tirata da tale Carlo Cosmelli, forse un Nobel, che spiega il fuoco di sbarramento: «Le accuse anti-scienza che il Papa ha lanciato da cardinale le ha ribadite anche nell’ultima enciclica. Lui è convinto che, quando la verità scientifica entra in contrasto con quella rivelata, la prima deve fermarsi. In una comunità scientifica ciò non può essere accettato». È evidente la panzana. Questo Papa non fa altro che domandare di «allargare la ragione» (Regensburg, 14 settembre 2006). Pone la questione dell’uso della scienza non della necessità della scienza. Ma - a leggere bene - questi scienziati de noantri imputano al Papa un discorso del 1990. Gli attribuiscono questo pensiero preso da Feyerabend: «Il processo della Chiesa contro Galileo fu ragionevole e giusto». Questa frase è tratta da internet, voce Ratzinger in Wikipedia, e questi hanno copiato senza leggere il discorso integrale dove l’allora cardinale spiegava come anche Ernst Block e tanti altri filosofi stessero rivalutando l’attitudine della Chiesa verso la scienza. L’esatto contrario di quanto sostenuto dai 67 piuttosto somari. Ma non vale la pena discutere con chi cerca pretesti per l’intolleranza. In realtà a noi basterebbe si applicasse la par condicio.

C’è una specie di cristofobia dominante in certi ambiti intellettuali italiani: un odio quasi neroniano, che si trasforma in amore sollecito e pastorale verso gli islamici purché siano estremisti. L’Università La Sapienza di Roma ha siglato il 15 giugno del 2006 un accordo per la creazione di un Comitato accademico italo-egiziano di «studi comparati per il progresso delle scienze umane nel Mediterraneo» (Oscum), tra la celebre università islamica di Al Azhar, considerata una sorta di Vaticano sunnita, e un cartello di cinque università italiane tra cui primeggia appunto La Sapienza di Roma. L’accordo è stato firmato alla presenza dello sheikh di Al Azhar, Mohamed Sayed Tantawi, ritenuto la massima autorità teologica dell’islam sunnita. Tantawi è uno che ha scritto fatwe per giustificare i kamikaze palestinesi, per santificare la condanna a morte di islamici che si convertano al cristianesimo e lo dicano ad alta voce. Ma per i professori della Sapienza di Roma va bene così, nessun appello avverso. Al Tantawi sì, Ratzinger no. A questo siamo ridotti nelle Università italiane. Se ci fosse un criterio serio per la selezione dei docenti, questa gente dovrebbe essere sospesa dall’insegnamento.

Figuriamoci, hanno già avuto mezza partita vinta: hanno retrocesso il Papa a figurante tra Mussi e Veltroni, ma non si accontentano. Repubblica di Ezio Mauro è dalla loro parte. Queste cose si vedevano al tempo del nazismo contro gli uomini diversamente pensanti. Ora accadono a Roma, Italia.
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